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Pizza napoletana in UK: quando gli inglesi se ne prendono il merito

di Giuseppe A. D'Angelo

Rudy's pizza Manchester Ancoats pizza con 'nduja
La pizza napoletana di Rudy’s, catena di pizzerie presente a Manchester, Liverpool e Birmingham

Qualche giorno fa un amico mi condivide un articolo pubblicato il 26 dicembre su un web magazine inglese, iNews. Il pezzo ha un titolo bellissimo, che mi trova completamente d’accordo: “Perché la pizza napoletana è il cibo distintivo della Gran Bretagna degli ultimi 10 anni” . La firma è di tale Josh Berrie, e l’incipit promettente mi fa sperare che finalmente possa leggere un reportage serio sulla pizza napoletana nel Regno Unito scritto da un inglese.

Uno dei motivi per cui è nato questo blog, ormai quattro anni fa, è stato infatti proprio perché ne avevo abbastanza di leggere sui siti inglesi improbabili liste sulla “pizza napoletana più buona di Londra” che mettevano a confronto pizze inconfrontabili tra di loro. Non parlo solo di pizzerie italiane o pseudo-tali, ma anche di prodotti autoctoni. Il mio scopo era quindi quello di rivendicare l’unicità di uno stile, quello napoletano, che per la sua peculiarità e le qualità intrinseche non merita di essere confuso con altri tipi di pizza (mettereste voi a confronto una Fassona Piemontese con una Fiorentina? Io non credo).

C’è da dire che all’epoca, comunque, c’era ancora molta ignoranza in materia, anche tra gli italiani stessi. Il mio tempismo nell’aprire il blog fu perfetto, in quanto di lì a poco si sarebbe compiuta una vera e propria rivoluzione della pizza napoletana a Londra, e successivamente nel Regno Unito. Alcune pizzerie erano già affermate da almeno tre anni (i pionieri, li chiamo io), altre sarebbero successivamente arrivate a imporsi sul mercato. Quasi tutte con progetti indipendenti curati da napoletani, o comunque italiani innamorati del prodotto e delle sue origini. E tutte con un unico scopo: non solo offrire una pizza di qualità, ma raccontare con passione un piatto che per troppo tempo – anche nel nostro paese al di fuori dei confini campani – è stato travisato. Spiegare che un cornicione un po’ più pronunciato non è per forza sinonimo di gommosità e pesantezza. Che l’umidità è l’elasticità sono in realtà dei pregi. E che gli ingredienti di importazioni, nelle loro dozzine di eccellenti varietà, fanno la differenza.

A distanza di anni tutti noi dobbiamo riconoscere un debito di gratitudine nei confronti di questi infaticabili lavoratori, che si sono sobbarcati l’impegnativo compito di aprire un’attività in una città difficile come Londra. Non solo, come è giusto che sia, perché hanno individuato una nicchia di mercato non coperta e dal potenziale remunerativo; ma perché dentro avevano una passione, un fuoco che brucia pari a quello dei loro forni, nel comunicare la loro cultura di appartenenza, condividerla con gli italiani emigrati che la desideravano a gran voce da anni, e allo stesso tempo educare un popolo, quello inglese, che negli ultimi trent’anni si è aperto alle influenze gastronomiche mondiali. Se c’è mai stato un momento di diffondere un messaggio, quello era quello giusto.

La pizza di Pizza Pilgrims, catena con numerose sedi a Londra e una anche a Oxford

E il messaggio è stato recepito, e con gusto anche. Il termine “Neapolitan”, una volta millantato in contesti che definirei illegali, oggi viene utilizzato con cognizione di causa. Chi si reca in cerca di una vera pizza napoletana sa dove deve andare: i vari Santa Maria, Sud Italia, Bellillo, Bravi Ragazzi, Donna Margherita e tutte le pizzerie napoletane di Londra che forniscono un prodotto verace e autentico. Ora, non dico che siano tutti appassionati e consapevoli, ma c’è sicuramente una competenza maggiormente diffusa che è legata proprio a questi e tanti altri nomi: tanti si sono messi in prima linea per portare avanti quella che è stata una vera e propria massiccia campagna di comunicazione.

Ecco, questo mi aspettavo di leggere nell’articolo di Josh Barrie. Un resoconto di come un intero paese abbia abbracciato concetto gastronomico e culturale vecchio di secoli, grazie all’opera meritoria di questa banda di emigranti con le palle (e diciamocelo, scusate il francesismo). Un dare a Cesare quel che è di Cesare con tutti i crismi del caso. E con entusiasmo e speranza ho cominciato a leggere l’articolo.

Quanto sarei rimasto deluso.

I brividi hanno cominciato a corrermi lungo la schiena quando il primo riferimento è stato all’onnipresente Franco Manca. -C’è da dire però che è stato inserito in un contesto veritiero: Giuseppe Mascoli, con l’intuizione del locale a Brixton, è davvero stato il pioniere dei pionieri della pizza napoletana. Peccato che lui stesso non ci abbia creduto. Perché a parte l’ispirazione partenopea, di napoletano la pizza di Franco Manca aveva ben poco, dal momento che fin dall’inizio si è optato per ingredienti locally sourced. E di lì a poco Mascoli avrebbe venduto il suo brand al gruppo inglese che ha reso la sua pizzeria l’immensa catena che è oggi. Insomma, di cuore napoletano c’era ben poco dietro quell’attività, solo una – sacrosanta – mentalità imprenditoriale.

Ancora oggi Franco Manca, con decine di locali in tutto il Regno Unito, segue il concept originale. E nella sua comunicazione la denominazione “neapolitan” è pressoché inesistente. Persino le pizze vengono descritte semplicemente con i loro ingredienti e non riportano i nomi, come Margherita e Marina, con cui quelle ricette sono conosciute a livello internazionale a prescindere dallo stile di pizza. Insomma, leggere il nome Franco Manca in un articolo che vorrebbe spiegare perché la pizza napoletana sia il piatto definitivo dell’ultima decade in Gran Bretagna è quantomeno un pugno nell’occhio.

Ma l’articolo peggiora. Perché dopo due righe appaiono nomi che con la pizza napoletana hanno ben poco, se non niente, a che fare. E hanno tutti un tratto in comune: sono tutte catene inglesi! Brand come Morelli Zorelli, Bertha’s, Yardsale e 400 Rabbit. Il messaggio che sembra si voglia far passare è chiaro: la pizza napoletana in UK l’avrebbero importata gli inglesi!

Why Neapolitan pizza is Britain's defining food of the last 10 years by Josh Barrie - iNews
L’articolo incriminato su iNews

Viene totalmente ignorata la miriade di pizzerie indipendenti gestite (e, nella quasi totalità dei casi, possedute) da pizzaioli campani. Gli unici due brand italiani che vengono citati sono Radio Alice (che con la pizza napoletana non ha niente a che vedere); e Santa Maria. Ma citare questi ultimi per ostentare conoscenza del mercato è come parlare d’arte moderna nominando il Guernica di Picasso: tutti lo conosciamo, anche se in realtà di arte non ne capiamo una mazza.

Si tralascia totalmente di dare credito al lavoro assiduo di dozzine e dozzine di pizzaioli emigranti che hanno contribuito a educare faticosamente il gusto degli inglesi. Un lavoro che ha segnato un’epoca, quella degli ultimi dieci anni appunto, e che ha avviato una vera e propria rivoluzione partendo da Londra, ma trovando spazio anche in altre città più attente ai trend gastronomici, come Manchester e Brighton, fino a diffondersi capillarmente su tutto il territorio.

Leggere quest’articolo mi ha causato un mix di sentimenti negativi: dalla rabbia incipiente ai conati di vomito. Finanche a provare compassione per l’autore del pezzo, che è evidentemente, come molti inglesi, vittima di un inganno: quella di un’approprazione culturale da parte di un intero popolo che sa fare impresa. Perché ovviamente, questo non avviene solo con la pizza napoletana. Basti pensare alle innumerevoli catene di cucina etnica disseminate lungo l’isola: Wahaca per i messicani, Wagamama per gli asiatici, Rodizio Preto per i brasiliani. Senza dimenticare, per gli italiani, i numerosi Strada, Prezzo e Jamie Oliver’s che mettono il pollo nelle tagliatelle.

Eppure, se questo tipo di ignoranza potevo accettarla una decina di anni fa, quando in effeti c’era poca competenza sull’argomento e l’offerta di pizza napoletana molto bassa; oggi non posso tollerarla e, anzi, la cosa mi rende furioso. Perché partire da una premessa reale, e cioè che la pizza napoletana ha conquistato il Regno Unito, significa essere consapevoli di un fatto; ma attribuirne il merito agli inglesi, e ignorare l’apporto fondamentale che i napoletani hanno dato perché questo trend si affermasse, significa non solo essere ignoranti, ma incompetenti nel lavoro di ricerca che ogni buon giornalista dovrebbe compiere.

Pizzaioli in UK evento Corran's Hopes Bellavita Shop Londra
Il gruppo di Pizzaioli in UK durante un evento di beneficenza a Londra

Questo articolo, di sfogo ma al contempo anche di analisi, arriva dopo tre giorni dalla mia lettura. Ho voluto raccogliere i miei pensieri a mente fredda prima di pubblicarlo. La prima reazione è stata un lungo post sul mio profilo Facebook, per raccogliere anche i pensieri dei pizzaioli in UK: molti si sono indignati, ma c’è anche chi ha fatto notare che la colpa sia anche nostra. Perché se oltre a una comunicazione appassionata ma forse anche un po’ troppo folkloristica, si sviluppasse un progetto di impresa degno delle catene inglesi, non saremmo a questo punto. Io condivido questo pensiero solo in parte, per due motivi. Il primo, è che si gioca fuori casa, e con investimenti privati che non hanno niente a che vedere con quelli dei colossi di mercato presenti sul territorio. Il secondo, è che quando fiumi di denaro vengono riversati dall’esterno si rischia di perdere il controllo sul prodotto, e di conseguenza quell’autenticità che lo ha reso così eccezionale.

Al di là di tutto, questo sfogo sul mio bloghettino, in italiano e rivolto a una platea piccola, lascia il tempo che trova. Il secondo passaggio è stato infatti quello di contattare l’autore del pezzo su Twitter per discutere del mio disaccordo. Successivamente, ho fatto la stessa cosa anche con il direttore della testata, offrendomi volontario per un contro-articolo che descrivesse la realtà della pizza napoletana in UK esattamente come l’ho raccontata in questi paragrafi. Ma quello che ho ricevuto da entrambi è stato solo silenzio.

Si combatte contro i mulini a vento qui. Ma non ci arrendiamo. Perché noi sappiamo come sono andate le cose. I pizzaioli in UK che portano avanti la loro battaglia giornaliera vedono riconosciuto il loro lavoro costantemente dai clienti che si siedono ai loro tavoli, e dai giornalisti gastronomici – quelli seri – che raccontano le loro gesta a ogni apertura. E io, nel mio piccolo, continuerò a contribuire alla diffusione della consapevolezza che c’è un mondo, lì fuori, oltre i confini italiani, di infaticabili lavoratori che portano alto il nome di un prodotto, di una cultura, di una città.

Il 2020 sarà l’inizio di un decennio meraviglioso. Avanti tutta!

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