Questo articolo è stato originariamente pubblicato in versione ridotta sul numero di Novembre 2022 di Storie Campane, rivista semestrale in abbonamento dedicata a luoghi, cultura e approfondimenti storici sulla regione Campania (vedi foto in chiusura).
Che la pizza sia un alimento dalle origini sparse è cosa nota: prove dell’esistenza di focacce o pane schiacciato le ritroviamo nell’antica Roma, nella Grecia di Platone, fino a risalire alle sponde del Nilo nell’Antico Regno egiziano dove sono state rivenute le prime tracce dell’uso di lievito di birra.
Ma la pizza come la conosciamo oggi, un panificato di forma tonda condito con alcuni semplici ingredienti, è un’invenzione squisitamente napoletana. Ed è al popolo napoletano che dobbiamo la sua diffusione globale, con la conseguente diversificazione degli stili che definiscono i gusti e le usanze di ogni nazione: dalla dollar slice di New York alla pizza con le banane svedese.
Fu il primo massiccio movimento migratorio avvenuto in seguito all’Unità d’Italia a portare la pizza fuori dai confini napoletani e verso il nuovo mondo: tra il 1880 e il 1915 furono milioni gli italiani, principalmente dal meridione, che partirono alla volta delle Americhe. Molti di questi si diressero verso gli Stati Uniti, con New York a fare da principale porto d’ingresso. È lì che numerosi pizzaioli partenopei – ma non solo: molti venivano anche dalle province di Salerno, Avellino e Caserta – hanno potuto mettere a frutto la propria arte per reinventarsi un’esistenza nella terra delle opportunità.
Le tomato pie, così come venivano chiamate dagli americani quelle strane torte condite vendute dagli immigrati italiani in mezzo alla strada, avevano un aspetto decisamente diverso dalla pizza tradizionale. I napoletani dell’epoca dovettero fare i conti con l’assenza della legna come materia prima per alimentare i forni, e ripiegare sul carbone. Le farine utilizzate erano differenti, e la mancanza di mozzarella richiese la sostituzione con il formaggio secco stagionato prodotto sul posto.
Questo però non fermò la diffusione delle pizzerie. La tradizione vuole che la più antica tutt’oggi ancora esistente a New York sia Lombardi’s, fondata nel 1905 da Gennaro Lombardi. Ma recenti ricerche condotte parallelamente da Peter Regas e Scott Wiener hanno però evidenziato che Lombardi era appena diciassettenne quando arrivò negli States appena un anno prima. La pizzeria sarebbe stata originariamente fondata da un altro campano, Filippo Milone, nel 1898, e solo dopo una serie di passaggi di proprietà sarebbe stata rilevata da Lombardi prima brevemente nel 1908, e successivamente nel 1918 (con il nome di Grande Pizzeria Napoletana, e solo dal 1939, dopo l’acquisizione e ristrutturazione dell’edificio, col nome Lombardi’s). Le ricerche effettuate nei registri delle attività della città di New York hanno fatto risalire alla luce diverse pubblicità – in italiano – che promuovevano attività di pizzerie agli inizi del XX secolo.
Milone non fu certo il primo imprenditore della pizza a New York (le ricerche di Regas arrivano fino a una pizzeria registrata da Giovanni Albano nel 1894, e aperta l’anno prima come panificio), ma certamente tra i primi imprenditori seriali della pizza negli Stati Uniti, con all’attivo almeno sette aperture nella Grande Mela. E con lui, molti altri italiani. Ma il piatto rimase per molto tempo relegato all’interno della comunità degli immigrati e non riusciva a prendere piede tra la popolazione americana. Fu il pugliese Frank Mastro a intuire che la pizza avesse il potenziale per diventare un cibo tanto popolare quanto gli hot dog. Ma era limitata dallo strumento con cui veniva prodotta: l’ingombrante, lento e instabile forno a carbone.
Fu così che Frank Mastro inventò i pizza deck ovens, i forni a incasso a gas per pizza che permettevano una cottura più regolare e uniforme, ma soprattutto permettevano di gestire fino a sei pizze contemporaneamente, dando così modo di sfornarle in rapida sequenza. Tra gli anni ‘30 e i ‘50 Mastro vendette oltre tremila forni, aiutando molti ristoratori a risollevarsi dalla Grande Depressione offrendo consulenza per l’apertura delle proprie pizzerie. Il pugliese divenne estremamente famoso nell’industria e nei media tanto da essere soprannominato Pizza King.
L’espansione del business della pizza ad opera degli italiani avvenne in tutti gli Stati Uniti: ancora oggi la maggior parte dei pizzaioli discende da famiglie di immigrati. Proprio come predetto da Mastro, la pizza diventò un orgoglio nazional-popolare, e la diaspora ha generato nel corso del tempo un’incredibile varietà di stili regionali. C’è una continua battaglia tra diverse città per contendersi, a colpi di dichiarazioni altisonanti sui media, il titolo di “capitale mondiale della pizza”: da New York, a Chicago, a Portland, fino alla semi-sconosciuta Old Forge in Pennsylvania.
Ne avrebbe qualcosa da ridire la città di San Paolo in Brasile, che conta da sola più di 4.000 pizzerie, cosa che la rende a tutti gli effetti la seconda città al mondo con più pizzerie dopo Napoli. Se infatti molti italiani del meridione si diressero verso gli States a cercare fortuna, altri salparono per l’America Latina, vasta porzione continentale ricca di terre da coltivare a disposizione di chi in Italia lavorava già nelle campagne ma non riusciva a uscire dallo stato di povertà. Oggi San Paolo vanta la più grande comunità di oriundi italiani al mondo, con ben 6 milioni di rappresentanti. La prima pizzeria, Cantina Castelões, venne aperta nel 1924 ed è tutt’oggi attiva. La pizza è talmente radicata nella cultura paulista che ogni 10 luglio nello stato si celebra il Dia da Pizza. Curiosamente, anche gli americani hanno una ricorrenza dedicata al loro piatto preferito: il National Pizza Day il 9 febbraio.
Differente invece il caso dell’Argentina, che pure vide una massiccia immigrazione di italiani: molti di questi, però, erano genovesi, e il loro impatto è tutt’oggi ben visibile nella cultura attuale. A Buenos Aires la pizza ha ripreso la ricetta della fugassa ligure, si è fatta tonda e si è arricchita con cipolle e formaggio, venendo ribattezzata fugazzetta. Alcune delle pizzerie storiche della città ancora oggi operative, come Güerrín e Banchero, sono state aperte da genovesi tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso.
Il paradosso è che mentre la pizza portata dai napoletani si stava diffondendo a macchia d’olio nel continente americano, proprio nella sua madre patria era ancora sconosciuta. Quello che oggi consideriamo il nostro piatto nazionale è rimasto infatti recluso tra le mura di Napoli per gran parte del Novecento. La pizza appariva come prodotto tipicamente locale nelle guide del Touring Club degli anni ‘30, mentre tra il ‘60 e il ‘70 la RAI le dedicava dei documentari. Notorio l’episodio del fisiologo americano Ancel Keys, padre della dieta mediterranea, che nel 1951 se la vide rifiutare a Roma, perché era “roba da napoletani”. Fu probabilmente proprio grazie alla massiccia richiesta dei turisti americani in visita in Italia nel periodo del boom economico che i ristoranti cominciarono ad adeguarsi in tutto il paese offrendola nei menù. È il cosiddetto pizza effect: un elemento di una cultura locale diventa molto più popolare all’estero per poi ritornare alla sua terra d’origine (il termine è stato coniato all’interno di un più ampio studio sociologico sulla diffusione delle culture induiste, che trovate qui).
Se il mondo occidentale ha visto la diffusione della pizza napoletana grazie ai professionisti che l’hanno esportata, quello orientale ne ha invece beneficiato tramite l’atteggiamento opposto. Negli anni ‘90 molti giapponesi cominciarono a venire a Napoli per imparare l’arte dai maestri pizzaioli e riportarla poi a casa. Un fenomeno che perdura ancora oggi, e che vede nella città di Tokyo il simbolo di questa assimilazione, con numerose pizzerie che ricalcano i connotati delle botteghe del centro storico. Secondo la filosofia propria dello shokunin, l’artigiano giapponese riprende fedelmente i movimenti e le tecniche del maestro, aderendo il più possibile allo spirito dell’insegnamento originale e aspirando a un continuo ideale di perfezione. Nonostante tutto, anche tra i pizzaioli giapponesi c’è chi ha preso ispirazione dal modello napoletano per poi ibridarlo con una propria visione e dargli un’identità tutta nuova. Oggi si parla di una pizza Tokyo Style, che ha tra i suoi rappresentanti nella capitale nipponica nomi come Savoy, Seirinkan e Pizza Studio Tamaki.
In tutto questo, dove si colloca l’Europa? Strano a dirsi, proprio a due passi da casa nostra la diffusione della pizza napoletana è avvenuta solo di recente. Il ventunesimo secolo ha visto una nuova emigrazione, quella dei cosiddetti espatriati, causata dalla Grande Recessione avvenuta tra il 2007 e il 2013. Anche qui i meridionali sono stati i grandi protagonisti, questa volta però aiutati dalla mobilità concessa all’interno dell’area Schengen. Tra le grandi mete, Londra ha riscontrato un particolare successo, attirando a sé frotte di lavoratori, tanto da diventare a un certo punto la “quinta città italiana in Europa” grazie a un mezzo milione stimato di expat nostrani.
E tra questi, di nuovo, una nutrita schiera di pizzaioli napoletani che negli anni ‘10 di questo millennio sono riusciti a conquistare i gusti degli inglesi – troppo abituati a pizze sciatte, blande e ipercondite – con la semplicità di una soffice e delicata pizza Margherita. Buone pizzerie napoletane indipendenti se ne sono contate pochissime per molto tempo, e spesso negli angoli più remoti della capitale britannica: nomi come Santa Maria, Bravi Ragazzi o Antica Pizzeria hanno rappresentato a lungo un approdo sicuro per chi fosse in cerca di autenticità. Ma una passione viscerale tutta partenopea per la propria cultura, mista a una buona dose di pervicacia, di lì a poco avrebbe fatto esplodere il trend, che dai piccoli locali di periferia si sposterà verso il centro grazie agli investimenti di gruppi imprenditoriali. La tecnica artigianale conquista man mano anche i locals, che cominceranno ad apprendere le basi del mestiere dai professionisti italiani sul posto. Nasce a tutti gli effetti una seconda generazione di pizzaioli di cultura mista che porterà la pizza napoletana a diffondersi in tutto il paese, venduta principalmente all’interno dei mercati rionali sotto forma di street food.
Il Regno Unito ha sicuramente avuto un ruolo di primo piano, ma anche nel resto d’Europa ogni paese, a modo suo e con i propri tempi, ha abbracciato la cultura della pizza napoletana. Nel frattempo, questa si fa sempre più largo in vari paesi del mondo. Alcuni, come Taiwan, hanno visto una recente, incredibile proliferazione. Altri, come l’India e molti paesi dell’America latina ci si stanno avvicinando a poco a poco (la stessa Buenos Aires ora conta molte più pizzerie che si rifanno allo stile napoletano). La diffusione in Polonia è addirittura partita dal basso, con un incredibile interesse verso la pizza napoletana fatta a casa.
E persino in Italia, nell’ultimo decennio, i pizzaioli napoletani cominciano a conquistare la lontanissima Milano, aprendo pizzerie che diventano via via sempre più sofisticate nell’offerta del prodotto (riprendendo tra l’altro un trend già in voga a Parigi). In tempi più recenti anche Roma, esponente di una cultura locale della pizza agli antipodi e fiera nemica di quella napoletana, sta cominciando a cedere alle lusinghe dei suoi vicini di regione. Un processo che non sembra volersi arrestare, e che continua a vedere sempre di più in Napoli un’ideale ombelico del mondo… della pizza.
Grazie a Peter Regas e Scott Wiener per aver revisionato la parte dell’articolo relativa alla diffusione della pizza negli Stati Uniti.